Far ripartire le nostre economie è la priorità. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa lo sa bene. Così come il fatto che lo choc del Covid-19 è piombato sulle nostre vite mentre l’Europa aveva appena trovato — faticosamente — una linea forte e comune sulla grande questione ambientale con il Green New Deal annunciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen: un investimento di mille miliardi in dieci anni. Ora però il premier ceco ha chiesto di metterlo da parte per dare priorità alle necessità post-coronavirus, e da noi anche Fratelli d’Italia ne ha chiesto il rinvio.
«In Europa c’è pure la Polonia sulla stessa linea».
«I Paesi del quartetto di Visegrad sono quelli a più alta concentrazione di carbon fossile nella loro economia, e hanno una difficoltà maggiore per il salto verso il green. Però per questi Paesi il problema della solidarietà ambientale è stato già affrontato, e con loro soddisfazione, con uno strumento europeo da 7,5 miliardi di euro per la riconversione, il Just Transition Fund. Bastano due conti: la Polonia avrà 2 miliardi e mezzo, l’Italia ci mette 1,4 miliardi e avrà 400 milioni. Mi viene da pensare che la loro richiesta sia più una scusa».
«Per negoziare qualcosa in più… Ma per tornare al punto centrale: questa Commissione Ue è stata votata a dicembre nel momento in cui ha proposto come spina dorsale del quinquennio il Green New Deal, il Piano verde dell’Europa. Se viene meno quello, è inimmaginabile — come ministro dell’Ambiente e come governo — aver appoggiato un’Unione europea che cambia nel giro di quattro mesi la sua mission vera».
«Guardi, il 4 marzo la Commissione, pienamente consapevole del Covid-19 visto che solo pochi giorni dopo ci sarà il lockdown in Italia, ha depositato la Legge Clima, fulcro dell’azione che ci deve portare alla neutralità carbonica del 2050. Insomma, c’è perfetta assonanza sul tema; se non dovesse essere più così, significherebbe cambiare completamente la natura della Commissione».
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«Resto ancora un attimo sul profilo internazionale: già prima del Covid-19 si parlava di metter il green fuori dal Patto di Stabilità. Io per il governo italiano e il commissario Gentiloni più di me l’avevamo detto chiaramente. A maggior ragione, oggi che il Patto viene formalmente sospeso sarebbe un controsenso culturale: si sospende per il green, si sospende per il virus ma non si fa più green? Del resto, come governo italiano il “salto di fede verde” l’avevamo già fatto a settembre, quando abbiamo proposto il decreto legge sul clima».Diventato legge a dicembre.
«Si può discutere se sia bella o meno, ma è la prima volta italiana di una legge con condizioni di urgenza e indifferibilità che parla solo di ambiente. Il governo aveva già preso una determinazione: andiamo verso il green indipendentemente dalle scelte dell’Ue, visto che von der Leyen ha giurato a dicembre. Se leghiamo questo al fatto di far diventare il Cipe — Comitato interministeriale programmazione economica — Cipes, con la “s” di sostenibile, ecco che tutta la nostra programmazione da quest’anno dev’essere sostenibile. Faccio un’autostrada, un porto? Non bastano le valutazioni di commerciabilità, serve anche quella di sostenibilità. È chiaro che poi va applicato».
Ecco. Proviamo a guardare oltre la Fase 2. Da dove «ripartire»? Si comincia a parlare di «Green Recovery».
«Ci stiamo tutti concentrando sulle norme sanitarie e su quelle di liquidità. Sacrosante. Ma c’è un’altra norma a cui stiamo già lavorando proprio al ministero dell’Ambiente. La chiamiamo “Norma Semplificazione”. Che sia poi “Norma Ripresa” o “Sviluppo Italia” serve comunque a dare una scossa. Tre sono le parole chiave: semplificazione, velocizzazione e sburocratizzazione. Termini complementari. Velocizzazione significa contingentamento dei tempi delle autorizzazioni. Sburocratizzazione vuol dire che chi deve dare un parere lo dà in valutazione tecnica e non burocratica. La semplificazione vuol dire incidere sulla procedura amministrativa».
«Per mettere una colonnina per la ricarica di un mezzo elettrico non è possibile siano necessarie tra 11 e 18 autorizzazioni amministrative.
Un Paese così è ingessato. Io come ministero sono come il prezzemolo fra gli altri, devo fare in modo che in campo ambientale si tengano salde le tutele, ma devo anche agire per cambiare il sistema».
Banalizzi ancora con un altro esempio.
«Ipotizziamo di voler rilanciare l’opzione green energetica, che appartiene al ministero dell’Ambiente ma anche allo Sviluppo economico: potremmo utilizzare una procedura di valutazione di impatto ambientale solo per il mondo delle rinnovabili. Oggi c’è una commissione che deve valutare tutte le attività — le rinnovabili, un ponte o un porto. Se invece ne facciamo una, con esperti interministeriali, dedicata, si potrebbero a tagliare i tempi delle autorizzazioni dal 70% al 90%».
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Per un campo fotovoltaico quanto tempo servirebbe?
«Sei mesi, non più i 3-5 anni odierni. Si consentirebbe all’azienda di avere un quadro preciso di tempi e modalità».
Cambierebbero anche le modalità?
«Oggi la progettazione arriva sul tavolo della Commissione come studio di fattibilità, che è molto semplice. Invece, come accade negli altri Paesi d’Europa, si porti in commissione già il progetto esecutivo, in modo che si possano valutare gli elementi che lo mettono in linea con la tutela ambientale. Non andrà poi riscritto. Tutto si velocizza senza cambiare il paradigma amministrativo».
Una delle chiavi per il futuro dovrebbe essere spingere l’economia circolare.
«Al ministero ho costituito quattro commissioni che stanno lavorando da tre mesi e producendo una quindicina di proposte su queste aree: Economia circolare, Bioeconomia, Imprese — per le piccole e medie — e Banche. Prendiamo quest’ultimo gruppo: il sistema creditizio non è stato mai coinvolto nel mondo ambientale, invece è indispensabile se si vuole moltiplicare un investimento. Ma oggi il sistema creditizio è costruito solo sul vecchio paradigma produttivo, per cui le garanzie vengono date a condizioni d’ingaggio che per l’economia circolare non funzionano, visto che non si riesce a studiare qual è il futuro di attività o start up coinvolte. Ecco, stiamo cercando di fare in modo che le banche usino metri di valutazione diversi. Bene, non c’è banca che non ha aderito».
Le foto dallo Spazio hanno reso evidente che il blocco di auto e attività industriali ha fatto crollare l’inquinamento. Come questo dato va trasformato in proposte per il futuro?
«Abbiamo sempre detto che il peso antropico determinava l’inquinamento. Ma non serve processare chi sosteneva il contrario. Se stiamo pensando alla ripresa con uno “choc” green, allora guardiamo ai provvedimenti. Cominciamo con l’aumentare gli ecobonus per i cittadini portandoli al 90% per fare efficientamento energetico e rigenerazione edilizia di abitazioni e condomini. Al ministro Patuanelli l’ho proposto e gli è piaciuta. L’ecobonus oggi è al 65% massimo, ed è scomputabile dalla dichiarazione dei redditi in 10 anni: quindi se anticipo 100 mila euro, prenderò 6.500 euro all’anno. Se si porta al 90% e lo scomputo tra 3 e 5 anni, si consente un anticipo di capitale molto minore: i 100 mila euro si recuperano a 30 mila all’anno per tre anni. E si è creato lavoro senza costruire».
Un’altra soluzione?
«Le colonnine di ricarica elettrica degli autoveicoli. Mettiamole con una certa facilità in tutti i comuni. E poi, a a chi vuol cambiare una macchina a motore termico da Euro 0 a Euro 5, invece di dare 5 mila euro come adesso se ne possono dare 15 mila. Si ingolosiscono le persone a passare a un’auto ibrida oppure total elettrico, visto che sono state realizzate tante colonnine sul territorio. Le case automobilistiche sono spinte a produrne di più — e più se ne producono, meno costano, ulteriore vantaggio — ma anche la ricerca tecnologica è invitata ad avanzare più velocemente. È un’idea semplice e tocca le famiglie: sono loro a fare il cambiamento del paradigma economico, non le grandi imprese».
Da questa crisi verrà fuori anche un consumatore con una nuova sensibilità. Il settore della moda italiana sta dimostrando di averlo capito più rapidamente di altri.
«Sul fashion c’è tutto il tema delle microplastiche. Uno dei problemi maggiori è il banale lavaggio dei vestiti che le producono. Aiutiamo allora la moda italiana, che è la prima al mondo, a produrre tessuti che ne hanno meno. Come? Col credito d’imposta e una campagna di sensibilizzazione. Diciamo al consumatore: se compri una giacca che non è lavorata con microplastiche c’è un’Iva ridotta. La leva fiscale e quella creditizia vanno usate per aiutare, non per deprimere. Io ti aiuto a fare una scelta. Più la adotti, più contribuisci a far crescere l’economia».
Fonte: articolo di Edoardo Vigna tratto dal Corriere della Sera